Lisetta Carmi. Ho fotografato per capire


Lisetta Carmi nel corso della sua lunga attività artistica ha sempre saputo cogliere l’attimo, ha capito quale potere può contenere l’immagine, quale può essere il “dono” dell’inquadratura perfetta.
Un dono come il talento per la musica, la sua prima grande passione nelle mie foto c’è ritmo, il ritmo della musica che ho studiato per 35 anni”. Il ritmo della vita – viene da aggiungere. Quella che passa dalle tavole del palco al deserto, dagli studi degli artisti alle vie di città desolate, dove i volti dei profughi, sempre dannatamente attuali, colpiscono lo sguardo e il cuore al di là di ogni latitudine. La vita che scorre lenta sulle chiatte del porto genovese o tra le pieghe delle lenzuola di un letto dove i travestiti, all’epoca erano gli anni settanta, potevano mostrarsi sfidando il pudore di una società perbenista che preferiva ignorare la loro esistenza. Volti di bambini, belli e indifesi da proteggere sempre da non sgridare mai, ammonisce: “sono i genitori che devono imparare dai loro figli, che devono avere una condotta esemplare; amo i poveri, gli emarginati, i bambini sono la vera ricchezza del mondo” e a quel mondo con le sue foto lei ha dato voce.
Dietro il suo obiettivo non sono passati solo i protagonisti del mondo culturale che animava la Genova negli anni settanta ma anche tutta la città, fermata nelle sue contraddizioni più profonde e nascoste: il porto, lo scarico dei fosfati, i volti sfigurati dalla fatica, da una quotidianità spesso lacerante, dalla sofferenza che è sintomo di emarginazione. Come pure la sofferenza che appartiene al ciclo vitale dell’umanità: undici scatti, per molti ancora oggi scioccanti, della sequenza del parto. La vita fermata negli attimi cruciali ma anche straordinariamente naturali. Eventi che accomunano l’umanità.

Lisetta Carmi: un’indagine su un mondo apparentemente coreografico e istrionico tuttaviafissato, attraverso la fotografia, in una dignità dolorosa e senza tempo: l’universo del vestire entravesti che negli anni ’60 sfidava coscientemente una società così come continua a farlo nellacontemporaneità.Era il capodanno del 1965 quando la fotografa Lisetta Carmi partecipa ad una serata con i Tra-vestiti. Siamo a Genova, sul lungomare, inizia il nuovo anno, giorno di festa. Chiede loro se puòfotografarli.Da quel giorno, per 7 anni, Lisetta Carmi – di origini borghesi – comincia a frequentare costan-temente i carruggi, i vicoli, le stradine della vecchia città portuale, l’antico ghetto ebraico, intessen-do con loro, i Travestiti, un rapporto sempre più intimo e personale. Loro sono gli “eroici viaggiatorinel mondo delle nuove identità” e lei una donna in cerca della sua.Genova è una città difficile, soffre le ferite della guerra, che ne ha modificato anima e aspetto.Città di porto, di transito, commercio, cantieri navali, polo industriale, urbanizzazione incontrollatae forte immigrazione. Tra lotte sociali e battaglie politiche, è qui che si crea il primo agglomeratodi gay e trans riconosciuto in Italia, è qui che nascono le prime associazioni per la difesa della pro-stituzione. Sono gli anni del boom economico, precedenti all’arrivo della droga.I carruggi sono un tessuto sociale variegato dove vi abitano le classi sociali più povere. I Trave-stiti vi trovano il loro habitat, convivono con gente vera dai volti intensi che fatica a sopravvivere,sono persone emarginate, confinate, scappate dalla loro identità di provenienza, che trovano rifu-gio, protezione, equivalenza in quei vicoli pieni di vita e contraddizione. Sono esseri umani, per lopiù immigrati provenienti da ogni parte d’Italia – dal sud specialmente – semplici e cordiali, ciascu-no con le proprie dinamiche, abitudini, speranze... E i clienti sono marinai occasionali, abitanti delluogo, operai, uomini sposati, padri di famiglia, giovani scapoli, a volte anche preti...Nel 1972 da quel lavoro esce il libro I Travestiti, dapprima ostacolato nella distribuzione e poisuccessivamente salvato dal macero, diventa anni dopo un cult della fotografia, un reportage di unmondo perduto, di un’Italia oscura ma con ancora dei valori. Anche la Carmi, che aveva difficoltà ad accettare la sua condizione femminile non riuscendoa scinderla dal ruolo di subordinazione in cui vedeva la donna costretta dalla società, cerca sestessa in quelle foto. È un lavoro fondamentale per lei, una terapia di psicanalisi che risponde albisogno interiore di capire gli altri e se stessa. Con i Travestiti impara a vivere senza un ruolo, adaccettare totalmente di essere una donna, ma rifiutando il ruolo stesso di donna.Quasi 50 anni dopo, nelle stesse stradine, Jacopo Benassi ripercorre i passi di quelle vite escopre le superstiti di quei percorsi rosi e immutati dal tempo. Benassi ha già indagato il mondodella prostituzione e quello dei gay nelle sue varie sfaccettature, anche personali. Nei loro pied-à-terre di lavoro, in quegli stessi vicoli stretti, Benassi incontra, intervista e ritrae Rossella e Ursula,le uniche sopravvissute da quei leggendari anni ’60. Con loro si inoltra nei carruggi a ricordare gliangoli di una città ormai trasformata e che conosce con loro, le nuove protagoniste del mestierepiù antico del mondo. Ne nasce un lavoro straordinario, una prospettiva umana di persone temutedalla società ma essenziali al sistema, un documento che aggiunge materiale al lavoro della Carmi per accorgersi che nulla cambiando nulla cambierà...

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